Mobbing: un fenomeno da debellare

Convegno Nazionale UIL CA

Hotel Hermitage – Galatina (le)

16 giugno 2000

 

 

 

Intervento del dr. Francesco BUFFA

Giudice del Lavoro

 

 

V

i ringrazio per avermi invitato a partecipare a questo convegno: anche se il mio intervento per la verità non era programmato, vorrei - parlando delle forme di mobbing e dei profili di tutela giurisdizionale del lavoratore - testimoniare l’attenzione che ha la magistratura, in particolare la magistratura del lavoro del tribunale di Lecce, per il fenomeno del mobbing. Un fenomeno sul quale confesso la mia ignoranza, e ne dirò subito il perché. Il mobbing, l’abbiamo sentito stamattina, è un fenomeno, nonostante il neologismo, di antiche origini, ed internazionale, avendo manifestazioni in vari paesi: quindi, è un fenomeno senz’altro diffuso.

Viene subito da chiedersi, allora,  quanti saranno i casi di mobbing emersi a livello giurisprudenziale, almeno sotto il profilo delle controversie individuali di lavoro, quindi, controversie dinanzi al giudice del lavoro. Mille casi? Cento casi? … Per quanto mi risulta nella sezione Lavoro del tribunale di Lecce, di mobbing si è parlato soltanto in un caso – ve ne parlerà poi l’avvocato Fernando Caracuta diffusamente – in un caso negli ultimi otto anni. Il fenomeno, quindi, è un fenomeno diffuso, ma un fenomeno sicuramente occulto.

Spesso l’emersione nella realtà sociale, prima ancora che nella realtà giudiziaria, di questi fenomeni è ostacolata dalla paura della perdita del posto o da altri timori  connessi con l’espletamento del rapporto di lavoro: allora il sindacato può avere un  ruolo importantissimo per cooperare proprio per l’emersione del fenomeno anche a livello giurisdizionale. Del resto succede spesso che, nei procedimenti ex art. 28 di repressione delle condotte antisindacali, si fa cenno – ma non si tratta dell’oggetto del giudizio che quindi non viene esaminato dal giudice – si fa cenno di fatti che possono rientrare nella fattispecie del mobbing.

Occorre, però, sotto un profilo giuridico, precisare che cosa si intende per mobbing, perché non può rientrare nel mobbing qualunque difficoltà o qualunque disagio che attiene all’espletamento del rapporto di lavoro.

Sicuramente l’ambito di responsabilità del datore di lavoro è un ambito ampio che riguarda innanzitutto l’obbligazione principale, che è quella retributiva, e che deve essere, ove possibile, conforme a quella prevista dalla contrattazione collettiva; ma il lavoro sottopagato è un lavoro che non ha nulla a che vedere con il mobbing. Così le condizioni di lavoro disagiate, difficili, ai limiti della legittimità penale, spesso sono condizioni che non attengono di per sé al mobbing.

Che cosa si intende, allora, sotto un profilo giuridico per mobbing?

Una risposta a questa domanda presuppone l’evidenziazione della natura del rapporto di lavoro subordinato, un rapporto nel quale, come è noto, vi è una parte che economicamente e giuridicamente in posizioni di debolezza e di inferiorità, e un’altra parte, più forte, alla quale l’ordinamento attribuisce una serie di poteri unilaterali di gestione del rapporto. I datori di lavoro hanno poteri unilaterali di organizzazione dell’azienda e poteri di organizzazione del lavoro: si tratta del potere, in generale, di conformare la prestazione lavorativa. Il lavoratore non ha un potere di determinazione né di incidenza sulle determinazioni dell’imprenditore: non può incidere sulle scelte organizzative aziendali, né sulle scelte del datore di lavoro di organizzazione del lavoro, ma subisce, passivamente, queste scelte. Correlativamente, i danni che al lavoratore possono derivare dalla attuazione di determinate scelte aziendali sono danni che, nel nostro ordinamento, non sempre vengono configurati come danni ingiusti e quindi idonei a legittimare una azione risarcitoria.

Il lavoratore, però, ha una posizione soggettiva di fondamentale importanza che è l’interesse ad un corretto esercizio da parte del datore di lavoro dei poteri unilaterali di gestione; a questo interesse, che è alla base di una funzione di controllo che può espletare il lavoratore sulla posizione del datore di lavoro, corrisponde quello che è il generale obbligo di buona fede e di correttezza del datore di lavoro: questo è allora  propriamente l’ambito principale della responsabilità del datore di lavoro per mobbing.

Quando è che si ha, allora, la violazione da parte del datore di lavoro di questi obblighi di correttezza e di buona fede? Si ha, innanzitutto, quando il datore di lavoro abusa dei propri poteri, cioè, giuridicamente, fa un uso dei propri poteri dirigendoli a fini diversi da quelli previsti dalla norma che assegna il potere unilaterale al datore di lavoro. Rilevano in particolare una serie di comportamenti del datore di lavoro connotati, sotto il profilo soggettivo, dal dolo del datore di lavoro. La nostra realtà economico-sociale è piena di “boss”, potremmo dire, che il sindacato conosce molto bene: si tratta, in generale, di situazioni che danno luogo al fenomeno doloso, appunto, del bossing,  in cui la violazione degli obblighi del datore di lavoro è una violazione preordinata per determinati fini illeciti.

Sotto un profilo soggettivo, però, non è sufficiente ipotizzare i casi di dolo del datore di lavoro: sicuramente dà luogo a responsabilità da mobbing anche l’ipotesi in cui il datore di lavoro, pur non volendo l’effetto lesivo, si prospetta egualmente l’evento lesivo ed è consapevole dello stesso;  vuole cioè una condotta ma si prospetta, pur non volendoli, i rischi ulteriori di questa condotta. Anche in questi casi, infatti, quando vi è non una vera e propria volontà lesiva, ma una mera consapevolezza lesiva di una condotta voluta, vi è una violazione dell’obbligo di correttezza e di buona fede del datore di lavoro; siamo comunque ancora nell’ambito del dolo del datore di lavoro, almeno in senso giuridico.

Peraltro, mobbing si ha anche – e forse le ipotesi sono quelle più diffuse – quando l’elemento soggettivo che viene a imputarsi al datore di lavoro è la colpa: non più un evento lesivo voluto o comunque una condotta voluta i cui effetti lesivi sono ipotizzati, ma una situazione soggettiva di mera colpa del datore di lavoro.

E’ l’ipotesi, assai più diffusa, del fatto dei dipendenti a danno dei propri colleghi.

Così, è diffuso il caso del dirigente che abusa dei suoi poteri a danno del collega subordinato, in posizione inferiore nella "gerarchia" aziendale. In questo caso, la responsabilità non è soltanto, ovviamente, del dirigente, ma è una responsabilità, prima di tutto, del datore di lavoro, per quanto fondata sotto un profilo soggettivo nella colpa; qui viene subito il richiamo all’articolo 2049 del codice civile e alla culpa in eligendo nella scelta dei dipendenti o -più realisticamente- alla  culpa in vigilando, cioè alla colpa nella preordinazione di quelle misure di controllo necessarie per la verifica del comportamento dei propri dipendenti.

Quindi, il datore risponderà in questi casi ai fini civili anche per mera colpa. L’esempio che ho fatto del dirigente è però una ipotesi in cui tutto sommato vi è una delega di poteri da parte del datore di lavoro e, quindi, la colpa del datore di lavoro -potremmo dire- si ricollega a questa delega di poteri.

Il mobbing, però, si ha anche in altre ipotesi di colpa del datore di lavoro che sono riconducibili all’art. 2087 del codice civile, cioè, a quell’obbligo generale di sicurezza che grava sul datore di lavoro.

Qui vengono a rilevare, quindi, i comportamenti di tutti i dipendenti aziendali, non solo di colui che è in posizione sovraordinata, ma dei dipendenti in genere, quale sia la loro posizione nell’organigramma aziendale: esempio classico è quello dei colleghi equiordinati al soggetto mobbizzato che, però, assumono una posizione di mobbers, tutti uniti nei confronti del singolo che viene isolato dal lavoro. E’ questa, forse, l’ipotesi di mobbing che emerge ancora meno nella realtà sociale proprio in quanto la posizione del datore è apparentemente estranea alle fattispecie; peraltro, difficilmente il soggetto mobbizzato – che tenderà verosimilmente a rinchiudersi sempre più in se stesso – giungerà ad esprimere le proprie preoccupazioni o le proprie lamentele al datore di lavoro che, in genere, è persona che non vuole "grane".

Le dette fattispecie, poi, potrebbero rilevare anche sotto un profilo penale, potendo ipotizzarsi degli estremi di fatti costituenti reato (ad esempio molestie, violenza privata): inoltre, nel momento in cui il danno causato al dipendente sia un danno permanente all’integrità psicofisica, ed il mobbizzato divenga  invalido in una determinata percentuale, potrebbero configurarsi gli estremi delle lesioni personali, dolose o colpose.

Sotto un profilo più strettamente civilistico, poi, mi limito a richiamare gli strumenti che il lavoratore ha in genere a propria disposizione: intanto, l’azione inibitoria del comportamento datoriale o comunque generalmente ascrivibile al datore, azione  urgente che tende a bloccare la condotta lesiva sul nascere; inoltre, l’azione risarcitoria, che è fondata su una responsabilità di tipo contrattuale nella quale, quindi, l’onere della prova è essenzialmente a carico del datore di lavoro (il quale è tenuto a dimostrare di aver adempiuto a tutte le misure richieste, in relazione al caso concreto, dalla situazione aziendale, per aver voluto evitare il danno).

In sintesi quindi, e concludo, gli strumenti giudiziari ci sono, sia sotto un profilo civile che sotto un profilo penale. Il problema resta quello della emersione concreta del fenomeno: ma qui mi fermo, perché i sindacalisti avranno sicuramente più cose da dire di me...   Vi ringrazio per l'attenzione.