Mobbing: un fenomeno da debellare

Convegno Nazionale UIL CA

Hotel Hermitage – Galatina (le)

16 giugno 2000

 

 

 

Intervento dell’Avv.ssa Loredana Capone

Assessore Pari Opportunità Provincia di Lecce

 

 

Innanzitutto, vorrei esprimere un sincero ringraziamento, a nome dell’Amministrazione Provinciale, alla Uil che ha voluto organizzare una discussione su questo tema, verso il quale il mio interesse è duplice, non solo come assessore ma anche come avvocato. Credo sia già importante parlarne, perché - come abbiamo rilevato dall’intervento del dottore Buffa - c’è sulla questione un difetto di informazione, anche tra gli stessi dipendenti, che probabilmente non sanno neppure che la condotta che stanno subendo a loro danno sia una condotta di mobbing, sanzionabile da parte di un Magistrato. E c’è scarsa informazione sul tema in genere nella società, tra i cittadini. E’ sufficiente approfondire l’argomento con delle indagini e ci si rende subito conto invece che il mobbing non è soltanto un fenomeno riscontrabile negli ambienti di lavoro.

E’ un fenomeno molto più diffuso, possiamo definirlo un fenomeno sociale. Lo dice la parola stessa: mobbing deriva dal verbo to mob = aggredire, e significa allontanare  dal gruppo una persona… per aggredirla. Bene, è sotto gli occhi di tutti quanto sia diffuso questo fenomeno: lo ritroviamo nella scuola, nel servizio di leva, talvolta nelle comitive, ci ricorda la logica del branco. E neppure la politica ne è esente. Anzi, nella politica purtroppo il mobbing è spesso praticato da taluni maggiorenti per allontanare il politico la cui carriera può “costituire un pericolo” per chi ritiene di avere diritto ad un percorso sicuro. Anche nella scuola si riscontrano episodi di mobbing, verso compagni di classe bravi ma indesiderati. E’ dunque un fenomeno sicuramente più diffuso di quanto non possa sembrare, che non è limitato al mondo del lavoro ed attiene ad un costume, ad un deprecabile atteggiamento di chi usa l’ipocrisia e la violenza psicologica per l’aggressione e l’esclusione dell’altro.

Ma è un fenomeno da non sottovalutare. Oggi se ne parla di più, si approfondisce l’argomento, ma molta strada c’è ancora da compiere anche da parte della Magistratura, che pure ha il merito di aver segnato tappe importanti nel percorso del riconoscimento a fini sanzionatori e talvolta reintegrativi, della condotta di mobbing. La verità è che dopo aver fatto le indagini e definito la condotta, si giunge raramente alla condanna.

Prendiamo due esempi recentissimi, due sentenze della Cassazione, che si occupano per la prima volta di mobbing in maniera quasi professionale, sono sentenze negative. In altre parole, si nega che

ci sia stato il mobbing. In quella dell’8 gennaio 2000, pur definendo il mobbing in maniera esemplare come “la lesione dell’integrità psicofisica del dipendente”, e la conseguente violazione dell’art. 2087, che impone all’imprenditore di adottare nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro: la Cassazione nega, tuttavia, la possibilità per il dipendente di vedersi riconosciuta l’applicazione del mobbing nell’ambito del suo rapporto di lavoro. Anche l’altra decisione del 2 maggio 2000, dopo una attenta disamina anche rispetto alla tutela di diritti costituzionalmente garantiti, come il diritto alla salute, all’uguaglianza e al rispetto per la dignità umana… noi ritroviamo ancora una volta una decisione particolarmente “prudente”.

E’ evidente allora che la soluzione davvero migliore sia una Proposta di Legge strutturata in maniera tale da comprendere veramente il fenomeno nella sua evoluzione, colpirlo nel modo suo di svolgersi, andando alla radice del problema nei gangli delle attività dove quel costume può trovare terreno fertile per annidarvisi. Pensiamo alla Pubblica Amministrazione.

Ho sentito una volta un esperto di comunicazione dire che in una Pubblica Amministrazione è normale che si pratichi il mobbing. La ragione discende direttamente dalla struttura stessa del pubblico impiego. In una organizzazione burocratica è facile che chi ha una qualifica superiore possa preoccuparsi del pregiudizio che gli può derivare da un collega di qualifica inferiore, soprattutto se gli appare più bravo, volenteroso, entusiasta. Scatta qui il germe del mobbing: l’idea di avere il potere di annientare l’entusiasmo, la buona volontà dell’altro emarginandolo ed escludendolo dai processi decisionali, dall’attività     nella quale lo sfortunato riusciva ad emergere. Ecco il sostrato naturale perché il mobbing possa essere praticato.

In questi casi vale ben poco curare l’effetto. Occorre intervenire sulla causa. E dobbiamo riconoscere che la Pubblica Amministrazione sta affrontando un processo di modernizzazione di tutto rispetto, un processo che punta a valorizzare il merito, intervenendo sulla cristallizzazione delle carriere, prevede l’attribuzione di funzioni dirigenziali anche a figure apicali che non siano necessariamente dirigenti, prescrive la valutazione dei risultati in relazione agli obbiettivi assegnati, richiede un costante ed attento controllo di gestione. Si vuole che parlino i fatti, insomma, non le affermazioni di chi ha il “potere della gerarchia”.

Gli esperti addirittura suggeriscono un’organizzazione “adocratica” della pubblica amministrazione, da “ad hoc”, organizzata cioè in modo non “burocratico” ma utilizzando le capacità migliori   per la gestione di quella funzione. Si pensi agli uffici per le relazioni col pubblico, che praticano il front-office, cioè il rapporto diretto con il cittadino. Essi sono costituiti spesso utilizzando le risorse più predisposte al rapporto col pubblico senza gerarchie ma solo con diverse attribuzioni.

Può servire una organizzazione di questo tipo anche come contrasto alle pratiche di mobbing? L’analisi delle applicazioni dimostra che i gruppi di lavoro organizzati secondo il metodo “adocratico” e coordinati per mansioni e non per qualifica non solo funzionano bene, ma sono affiatatissimi. C’è una struttura orizzontale e non verticale e tutto il gruppo è a diretto contatto con il

responsabile del progetto. In questo caso non c’è potere, da parte di qualcuno, di esercitare pressione psicologica sull’altro dipendente, visto come un pericolo per la propria carriera e dunque almeno queste cause di mobbing spariscono. Ma, pur vedendone i pregi, occorre riconoscere come l’applicazione di un’organizzazione di questo tipo non sia semplice.

Ecco perché non basta fare le leggi e concepire modelli organizzativi. Occorre poi concretamente saperle e poterle applicare con la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti.

E conflitti rispetto al modello organizzativo succintamente descritto nascono proprio, per esempio, con le organizzazioni sindacali: rispetto all’applicazione del contratto, alle categorie di inquadramento e così via.

Altro ruolo importante che le Amministrazioni possono assolvere nell’ottica della riduzione delle pratiche di mobbing è quello di provvedere alla formazione dei propri dipendenti. Perché i lavoratori abbiano maggiore consapevolezza dei propri limiti ma anche perché si aggiornino ai nuovi modelli comportamentali e non assumano prassi inopportune, se non talvolta illecite.

E’ tra queste prassi che può annoverarsi l’idea che frequentemente accarezza dirigenti e responsabili, nel pubblico e nel privato, di avere una sorta di “potere personale” su chi opera nel proprio ufficio.

Ci sono casi giudiziari che raccontano il problema. Pensiamo all’atteggiamento di alcuni capoufficio al cospetto di una bella ragazza, magari con la minigonna o con una notevole scollatura. Quale sarà la reazione? Spesso l’uomo si è sentito, ed ancora si sente, data la frequenza anche notevole di casi come questo, legittimato ad “approfittarne  personalmente”, costringendo ad atti sessuali la collega.

Egli si sente “legittimato” non ad esercitare l’azione disciplinare richiamando la dipendente ad un atteggiamento più decoroso sul luogo di lavoro, ma a praticare la molestia oppure ad emarginare la collega che si rifiuta di cedere, e tale legittimazione spesso gli è stata riconosciuta anche dalla società e qualche volta anche dai giudici.

La paura di perdere il posto di lavoro aiuta poi il perpetrarsi del ricatto e consente la continuazione del reato di molestia o violenza sessuale o del mobbing. In questi casi molto può fare una buona azione di formazione e la presenza di comitati per le pari opportunità o altri centri di ascolto. Molto anche la sorveglianza del datore di lavoro, in alcune sentenze (anche se spesso riformate in Corte di Cassazione) ritenuto responsabile per “culpa in vigilando”.

Ma l’azione più incisiva possono disporla solo norme severe sulla violenza sessuale, per fortuna già approvate, e sul mobbing, che ci auguriamo vengano presto emanate. E poi una più forte coscienza sociale, fatta di rispetto per l’altro, anche se diverso, specie se più debole.

Quante volte il mobbing è stato escluso perché s’è detto che il soggetto era debole per carattere, e da quella debolezza derivava la sua emarginazione non dalla violenza psicologica esercitata su di lui o lei. Ebbene, di fronte a queste affermazioni, dobbiamo ricordare che il diritto di eguaglianza, il rispetto  per la dignità dell’altro, che sono principi costituzionalmente garantiti, non si applicano soltanto  nei confronti dei soggetti forti, ma di tutti. E non solo. Anche chi vede un’ingiustizia ha l’obbligo di attivarsi e, se è il caso, di denunciarla, non solo chi la subisce. Sono questi comportamenti che ci distinguono come donne, come uomini, come persone sociali e ci contrappongono al branco. Non attenervisi non è un problema di regole di lavoro ma di civiltà.